Intellettuale profondamente inserita nelle vicende culturali, linguistiche e sociali della comunità nazionale slovena in Italia, Tatjana Rojc è nata a Trieste. Ha studiato lettere slovene e letterature comparate. È docente di lingua e letteratura slovena e collabora con diversi atenei. Amica di lettere dello scrittore sloveno Boris Pahor (premiato nell’edizione 2010 del Premio Ostana), è autrice di monografie, saggi e articoli critici in sloveno e italiano.
Ha pubblicato diversi libri, tra cui Le lettere slovene dalle origini all’età contemporanea, con Cristina Benussi (2004), Così ho vissuto. Biografia di un secolo 2013, con Boris Pahor, Bevo quest’aspro vino / Pijem to trpko vino. Izbrane pesmi iz Pesmarice (2008), prima traduzione in sloveno di una scelta di liriche dal Canzoniere di Umberto Saba.
Recenti sono la sua collaborazione al film documentario di Elisabetta Sgarbi “L’altrove più vicino” e la pubblicazione del romanzo La figlia che vorrei (2017).
Nel 2018 in qualità di candidata indipendente è stata eletta in Senato della Repubblica italiana come rappresentante della minoranza slovena.
Motivazione
Studiosa di lettere slovene e letterature comparate, esegeta di autori come Srečko Kosovel, France Balantič, Alojz Rebula, Miroslav Košuta e Boris Pahor, al quale ha dedicato una biografia e che la considera l’interprete più approfondita della sua opera, con i suoi saggi e i suoi romanzi Tatjana Rojc realizza una grande metafora della complessa e frammentaria realtà triestina, e si fa interprete attiva di un ponte culturale fra la letteratura slovena e italiana, contribuendo alla conoscenza e alla diffusione della narrativa slovena. In particolare il suo ultimo romanzo “La figlia che vorrei avere” (La Nave di Teseo), primo testo scritto direttamente in italiano da un autore di madrelingua slovena, è un racconto di e sul confine che, con una scrittura appassionata, a tratti lirica, centrata sui sentimenti e di sicura forza espressiva, si fa specchio di una condizione larga e condivisa: non solo quella della comunità slovena di Trieste, ma della città nel suo frastagliato insieme.
ANTOLOGIA. Testo Italiano
Trieste, gli Sloveni: attorno al 1912
Dove ha inizio il mare. In verità dove il mare di tanto in tanto si tramuta in fiume. Dove l’Isonzo e il Timavo seguono veloci il proprio corso di acque dolci per fondersi con l’Adriatico, delineando una linea chiara e maestosa tra la luminosa trasparenza grigio-azzurra che diviene frangente di colori torbidi di terra dei fiumi sotterranei e sacri, e la massa verde scura del Mediterraneo. Dove dal sottosuolo e dalle montagne convergono gli umori della natura per fondersi con il limite ultimo della propria esistenza. Questo corso di acque dolci che segna il passaggio dalla pesca lagunare dei pescatori graesani e chioggioti a quella antica slovena delle reti, delle malajde, sospese tra le coste rocciose da San Giovanni e Duino attraverso Sistiana, Aurisina, S. Croce e Grignano e sino a Contovello, Barcola e Trieste.
Questo è ciò che si vede dal ciglione carsico: dove s’incontrano il Carso e il Mediterraneo, dove il timo, la salvia, la ginestra, i pàstini, questi vigneti terrazzati, murati con la pietra gialla del masegno, e il profumo salmastro dell’acqua sanno tramutarsi in pietra, quercia, ginepro, sommacco e pino nero. Dove l’uomo ha ibridamente scelto di essere nel contempo pescatore e contadino per porre le basi della propria sopravvivenza proprio in questi luoghi. E costruirsi un rapporto con la città attraverso i commerci dei frutti della terra e del mare, una città che stava sviluppandosi con innesti di urbe e di campagna, dove non esiste una precisa linea di demarcazione tra gli usi buoni e quelli cattivi, perché è stata questa discesa dall’entroterra verso la città a definire, nei secoli, ogni singolo individuo.
Questo stretto di mare come incontro tra due mondi, dove il fiume riesce a calmarsi quando si fonde con il mare. La forza viva degli antichi citri, le sorgenti di acqua dolce che sboccano dalla costa sottomarina, è capace di mutare la poca profondità di un mare morto in una imprevedibile sequenza di un braccio del Mediterraneo, un cerchio di passaggio, nel quale si riconosce la radice slovena del litorale: è questo ciò che si vede dal giardino terrazzato su quella riva di Barcola, quando ti ritrovi a discorrere con a sinistra la città di Trieste e a seguire quella di Capodistria che delimitano il golfo. Sotto un albero di fichi e in una lieve ombreggiatura di ortensie rosa. A destra, invece, si staglia limpido il passaggio delle acque dolci – la fine e l’inizio di un mondo diverso, il mondo dalle coste sabbiose, dalle pianure sconfinate, dalle cadenze e dalle usanze latine. E in mezzo il flusso della città nel golfo: Tergeste caput mundi.
Questa Tergeste definita e descritta nella sua totalità e nella sua interezza dalla letteratura che ne ha saputo esporre tutte le peculiarità e le specificità caratteriali: per Italo Svevo nichilista, per Claudio Magris segnata dai microcosmi, per Fulvio Tomizza lacerata dalla presenza della frontiera, per Srečko Kosovel luminosa e aperta, per Boris Pahor città anche amara, per Dragotin Kette segnata dalla trascendenza e dalla scoperta del Mediterraneo, per Miroslav Košuta Trieste triste, vulgo Terst, per James Joyce caratterizzata dalla sua lingua franca, questo dialetto istro-veneto, e dalle osterie, per Umberto Saba ancorata all’individuale serena disperazione, dall’identità autenticamente spuria, per Mauro Covacich, dall’umore talvolta vinoso e dal cervello frizzante. Una Trieste che ha ispirato anche Charles Nodier, Stendhal, Winkelmann, Burton, Andrić, lasciando una traccia indelebile, anche se taluni autori vi hanno soggiornato soltanto per brevi periodi.
Quando ci s’incammina fino alla fine del Molo San Carlo e si guarda la città da lontano, ne emerge la sua molteplicità: l’architettura austro-ungarica, i resti romani, l’entroterra sloveno, l’esodo istriano del secondo Dopoguerra, l’elemento nazionale (e anche quello nazionalistico) italiano. Questa molteplicità è compresa anche in quella rosa dei venti in cima al molo: e viene definita Stadt der Winde da Veit Heinichen, naturalizzato triestino, forse l’ultimo a definire Trieste come capitale mondiale della letteratura. La bora da nord-est, lo scirocco da sud e il maestrale. E poi quel neverin delle buriane, terrore dei naviganti. I venti come le lingue che si riconoscono tra loro perlopiù solo da lontano perché non si sanno ascoltare. Trieste, capitale del caffè, del sale, mercato del pesce, capitale della Mitteleuropa, capitale di acute tensioni e scontri di carattere etnico, nazionale, ideologico, emblema del mondo prima e dopo la Grande guerra, e anche di quello prima e dopo il 1945. Luogo dove da secoli sono presenti numerose varianti delle religioni monoteiste, e nel contempo città dalle origini e dalla vocazione spiccatamente laiche. Città di Edoardo Weiss, allievo di Freud. Espressione delle nevrosi di Italo Svevo, Umberto Saba, del compositore Marij Kogoj. E luogo in cui Franco Basaglia negli anni Settanta del Novecento ha attuato la rivoluzione nel campo della psichiatria contemporanea, ponendo al centro l’uomo e non le sue malattie, cercando di sfidarlo a uscire dal suo stato psicotico con l’apertura nei confronti della società e del mondo attraverso l’espressione artistica.
In letteratura Trieste si è costruita un sistema autoreferenziale che si fonda sulla visione mitica dell’identità nazionale, evidentemente non unitaria, e che cede alle lacerazioni e alle psicosi, sintomi par excellence della società moderna.
Questa è la Trieste di Boris Pahor.
(tratto dalla versione italiana della monografia di Tatjana Rojc: Boris Pahor.Così ho vissuto. Biografia di un secolo, Milano, Bompiani 2013)
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