Aleksej Leontiev (Anat Timĕrkassi/Nižnee Timerčeevo, Ciuvascia, Russia, 1956) è stato giornalista, professore presso la facoltà di giornalismo dell’Università Statale Ciuvascia tra il 1998 e il 2015. Attualmente lavora come ricercatore presso l’Istituto Ciuvascio di Scienze Umane, il principale centro di ricerca della Ciuvascia in letteratura, arte, filologia, storia, archeologia, etnologia e sociologia.
Eletto redattore capo di Kommunizm yalavĕ (Bandiera comunista), principale giornale in lingua ciuvascia, che nel 1991 riprende il nome storico di Hypar (Notizia), mantiene questo incarico fino al 2014 e come corrispondente è inviato due volte in Cecenia (1995 e 1997).
Dal 1998 al 2014, in qualità di direttore generale di Hypar, principale casa editrice di periodici in ciuvascio, cura la pubblicazione di vari libri. Nel 2007 fonda la rivista letteraria e culturale LIK, in ciuvascio e russo, di cui è editore fino al 2015. Deputato al parlamento della Ciuvascia nella prima legislatura democraticamente eletta (1994-1998), nel 1992 è tra i fondatori del Congresso Nazionale Ciuvascio, la principale organizzazione nazionalista ciuvascia di cui è vicepresidente dal 1997 al 2017.
Oltre a innumerevoli articoli e interviste in ciuvascio (e in russo) Aleksej Leontiev ha pubblicato quindici libri nelle due lingue, tra cui, nel 2011, un volume sulla storia del quotidiano Hypar fondato nel 1906. Ha pubblicato quattro volumi di testi di Nikolaj Nikolskij, il primo editore di Hypar. Il suo ultimo lavoro è Çăvaş natsi kongresĕ 1992-2017 Čuvašskij nacional’nyj kongress, vasto compendio di documenti prodotti dal Congresso Nazionale Ciuvascio nel corso della sua storia.
Il suo lavoro come traduttore si è finora concentrato sulle traduzioni in ciuvascio della letteratura russa, poiché queste sono le lingue che conosce bene.
Tra il 2006 e il 2012, ha pubblicato sei volumi di Alekandr Grin, che comprendono sei romanzi e ottantanove storie. Nel 2013 è uscita la sua traduzione di due romanzi di Aleksej Tolstoj: L’iperboloide dell’ingegnere Garin e Aelita. Le sue traduzioni in ciuvascio di Un eroe del nostro tempo di Michail Lermontov e due volumi di romanzi e storie di Jack London, tra cui Zanna Bianca (tradotto da versioni russe) sono in attesa di pubblicazione.
Motivazione
Nel panorama letterario in lingua ciuvascia, in cui le traduzioni sono scarse e la poesia abbonda, le traduzioni letterarie di testi in prosa di Aleksej Leontiev con un linguaggio non inquinato che non cede nell’artificiosità, rappresentano un contributo alla letteratura ciuvascia che non ha eguali per qualità e quantità. Sfortunatamente, la rapida diminuzione dei lettori, molto maggiore della riduzione del numero di parlanti, rende difficile la pubblicazione e la diffusione delle sue opere. Il Premio Ostana intende rendere merito alla sua opera di promozione e modernizzazione della lingua.
ANTOLOGIA - Testo italiano
Da Zanna Bianca di Jack London (cap. 1)
La traccia della carne
Una cupa foresta di abeti si stendeva sulle due rive del fiume ghiacciato. Recentemente il vento aveva strappato agli alberi il loro bianco mantello di brina; e gli alberi, neri e sinistri, sembrava si appoggiassero l’uno all’altro, nella luce morente. Un silenzio di tomba regnava sul paesaggio: e il paesaggio stesso era desolato, senza vita, senza movimento, così squallido e gelido da sembrare permeato di un qualcosa di più triste della stessa tristezza. Vi regnava quasi un accento di riso, un ghigno ben più terribile di ogni tristezza, un riso tetro come il sorriso della sfinge, un riso freddo come il gelo, in cui si sentiva aleggiare la truce minaccia dell’ineluttabilità. Era la saggezza imperiosa dell’eternità che irrideva alla futilità della vita e agli sforzi dell’umanità. Era il "Wild", il selvaggio "Wild" della Terra del Nord, dal cuore di ghiaccio.
Ma in quella regione, sfidando il gelo, c’era la vita. Lungo il fiume ghiacciato scendeva a fatica una muta di cani lupi. Il loro pelo irsuto era coperto di brina. Ad ogni respiro, il vapore che usciva come un getto dalle loro bocche gelava subito e si posava, sotto forma di cristalli di ghiaccio, sulle loro pellicce. I cani erano bardati con finimenti di cuoio ed erano attaccati ad una slitta con tirelle pure di cuoio. La slitta non aveva pattini ed era fatta di robusta corteccia di betulla; aderiva alla neve con tutta la sua superficie.
La parte anteriore della slitta era sollevata e come ripiegata su se stessa, per cacciare sotto e ai fianchi la neve fresca, come se si trattasse di un’onda marina. Sulla slitta vi era una cassa oblunga, lunga e stretta, saldamente legata. Vi erano anche altre cose, delle coperte, una scure, una caffettiera e una padella; ma la cosa che più spiccava ed occupava maggiore spazio era la cassa oblunga.
Davanti ai cani vi era un uomo, che calzava delle larghe racchette da neve. Dietro alla slitta si affaticava un altro uomo. E sulla slitta, nella cassa, giaceva un terzo uomo per cui ogni fatica era cessata, un uomo che il "Wild" aveva soggiogato ed abbattuto, fino a togliergli per sempre la possibilità di muoversi e di lottare. Il "Wild" non ama il movimento. La vita è un’offesa per lui, perché la vita è movimento; e il "Wild" mira ognora a distruggere il movimento. Gela le acque, per impedire la loro corsa verso il mare; succhia la linfa dagli alberi, finché il gelo raggiunge il loro cuore. Ma il "Wild" incrudelisce soprattutto, nel modo più feroce e terribile, contro l’uomo, per schiacciarlo e soggiogarlo: l’uomo, in cui la vita scorre più irrequieta, l’uomo, ribelle alla legge che stabilisce che ogni movimento deve alla fine cessare.
Ciononostante, con coraggio indomito, uno davanti, l’altro dietro alla slitta, i due uomini che ancora non erano morti proseguivano nella loro fatica. Erano vestiti di pellicce e di morbide pelli conciate. Avevano le sopracciglia, le guance, le labbra coperte di ghiaccioli, formatisi dal condensarsi del loro respiro, così che non si potevano distinguere i loro volti. Sembravano maschere spettrali, impresari di pompe funebri, che, in un mondo spettrale, seguissero il funerale di qualche fantasma. Ma sotto quell’apparenza erano uomini, che penetravano in quella regione desolata, beffarda e silenziosa, microbi dallo spirito avventuroso che si slanciavano in un’avventura colossale, e che volevano battersi contro un mondo potente, contro un mondo straniero, ostile e tragicamente immobile come gli abissi dello spazio.
Camminavano senza parlare, per non sprecare il fiato, necessario al faticoso lavoro. Ovunque era silenzio, un silenzio così intenso ed opprimente, che sembrava materializzarsi in qualcosa di tangibile. Opprimeva le loro menti alla maniera con cui l’acqua grava, con tutto il suo volume, sul palombaro. Li schiacciava col peso di una vastità infinita; li opprimeva fin nei più remoti recessi delle loro menti, spremendone, come si spreme il succo da un grappolo d’uva, tutti i falsi ardori, le esaltazioni e le eccessive presunzioni dell’animo umano. Ed essi non potevano non sentirsi dei piccoli esseri, polvere, atomi, che si muovevano goffamente e scioccamente in mezzo al giuoco equilibrato degli elementi ciechi e delle forze cosmiche.
Un’ora trascorse, e poi un’altra ancora. Già svaniva la pallida luce della breve giornata senza sole, quando nell’aria tranquilla si innalzò un debole grido lontano. Sorse improvviso, crebbe sino a raggiungere la nota più alta, che tenne per un poco, una nota forzata e palpitante, e poi lentamente morì. Avrebbe potuto essere il lamento di un’anima smarrita, se non fosse stato impregnato di una certa triste ferocia, di un ardore impaziente e affamato. L’uomo che camminava davanti ai cani girò la testa, ad incontrare con lo sguardo gli occhi dell’uomo che seguiva la slitta. Poi, al di sopra della cassa oblunga, si scambiarono un cenno d’intesa.
Un secondo grido si innalzò, un grido acuto, che trafisse come un ago il silenzio. I due uomini ne scoprirono la provenienza. Il suono sorgeva dietro a loro, in qualche punto della candida distesa che avevano appena attraversato. Si levò un terzo grido di risposta, sempre dietro a loro, alla sinistra del secondo grido.
− Ehi, corrono dietro a noi, Bill - disse l’uomo che camminava in testa.
La sua voce risonò rauca ed irreale: era evidente che le parole gli costavano un certo sforzo.
− La carne è scarsa - rispose il compagno. Non ho visto la traccia di un coniglio, da parecchi giorni.
Tacquero, ma continuarono a tendere l’orecchio a quegli urli che si levavano dietro a loro.
Al cader delle tenebre, radunarono i cani in una macchia di abeti sulla riva del fiume, e si accamparono. La bara, posta accanto al fuoco che avevano acceso, servì da sedile e da tavola. I cani, raggruppati dall’altra parte del fuoco, ringhiavano e si azzuffavano, ma non dimostravano nessun desiderio di errare nell’oscurità.
− Enrico, mi pare che se ne stiano ben stretti all’accampamento osservò Bill.
Enrico, accoccolato vicino al fuoco, stava riempiendo di ghiaccio la caffettiera, e si limitò ad un cenno del capo. Né parlò finché non fu seduto ed ebbe cominciato a mangiare.
− Sanno dove la loro pelle è in salvo - disse poi. Preferiscono mangiare che servir di cibo ad altri. Sono saggi, loro. Bill scosse la testa:
− Hm, non so...
Il suo compagno lo guardò con curiosità:
− È la prima volta che ti sento mettere in dubbio il fatto che siano saggi.
− Enrico, - disse l’altro, masticando con calma una manciata di fave - hai osservato quanto chiasso facevano i cani quando ho dato loro da mangiare?
− Già, più del solito... - riconobbe Enrico.
− Quanti cani abbiamo. Enrico?
− Sei.
− Bene... - Bill tacque per un istante, come per dare maggiore importanza alle parole che stava per pronunciare. - Dicevo, dunque, che abbiamo sei cani. Ho tirato fuori dal sacco sei pesci. Ho dato un pesce ad ogni cane e senti, Enrico, mi manca un pesce.
− Hai contato male.
− Abbiamo sei cani - ripeté l’altro freddamente. - Ho tirato fuori sei pesci e One Ear non l’ha avuto. Sono tornato indietro dopo e gli ho dato il suo pesce.
− Ma noi abbiamo soltanto sei cani - obiettò Enrico.
− Enrico, - proseguì Bill - non dico che fossero tutti cani, ma erano in sette a prendere il pesce.
Enrico smise di mangiare per gettare un’occhiata attraverso il fuoco e contare i cani.
− Sono soltanto sei, ora.
− Ho visto correr via l’altro sulla neve - dichiarò in tono calmo e deciso Bill. - Ne ho visti sette.
Enrico lo guardò con commiserazione:
− Sarò terribilmente felice quando questo viaggio sarà finito.
− Che cosa vuoi dire con questo?
− Voglio dire che tutte queste fatiche ti danno sui nervi e che stai cominciando ad aver le traveggole.
− Ci avevo pensato anch’io - osservò gravemente Bill. − E allora, quando ho visto quell’altro correre via sulla neve, ho guardato e ho visto le orme. Allora ho contato di nuovo i cani: erano proprio sei. Le orme sulla neve erano ancora ben visibili. Vuoi vederle? Te le mostro subito.
Enrico non rispose, continuò a masticare in silenzio e finì il pasto con una tazza di caffè. Si pulì la bocca col dorso della mano ed esclamò:
− E allora tu pensi che fosse... - un lungo ululato, tragicamente feroce, sorse dalle tenebre; Enrico si interruppe per ascoltare, poi finì la frase, accennando con la mano in direzione del suono - uno di quelli?
Bill annuì.
− Già... Del resto hai notato tu stesso come erano agitati i cani. Intanto gli ululati si succedevano da ogni parte, trasformando il silenzio in un manicomio. I cani, spaventati, si pigiavano gli uni contro gli altri, avvicinandosi al fuoco tanto da bruciacchiarsi il pelo. Bill gettò altra legna sul fuoco e poi accese la pipa.
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