Franco Marchetta (Udine, 1952), dopo i primi lavori di narrativa e di teatro in italiano, negli anni ’90 comincia a interessarsi, come forma di espressione, alla lingua friulana, imparata per strada fin da piccolo. Egli comprende che il friulano non pone alla società questioni di semplice sopravvivenza o di mantenimento di legami veri o presunti con la tradizione. In una realtà composita come il Friuli Venezia Giulia, formata da diverse etnie che utilizzano numerosi lingue o dialetti, la componente friulana (di cui i parlanti la lingua sono oltre 600.000) è un elemento saldamente intrecciato con una società in continuo divenire e in costante interrogazione su se stessa. Il friulano è vivo e rappresenta una questione politica in senso lato: intrattiene rapporti di potere con il resto delle componenti regionali in un quadro di convivenza pacifica ma dialetticamente assai vivace.
Per Marchetta, l’impegno nella scrittura in lingua madre assume un connotato diverso rispetto alle necessità di lingue minoritarie che anche in Friuli si riscontrano in piccole isole alloglotte. Non è di memoria e di testimonianza, tanto meno di nostalgia, ma è di elaborazione: se esiste una società friulana e se questa utilizza una lingua per trasmettere i suoi valori, ebbene questa lingua non può essere quella che viene dal passato, seppur obbligatoriamente orgogliosa della propria origine, ma deve saper stare al passo con ciò che propone una società sempre più globalizzata.
Nel 1997 vince per la prima volta il San Simon (il più importante premio di narrativa in friulano, giunto nel 2014 alla 35a edizione) con il romanzo Madalene (Maddalena), pubblicato nel 1998 dall’editore Ribis. Inizia una lunga attività di ricerca e di sperimentazione sulla lingua: il primo romanzo infatti sospinge la sintassi verso orizzonti mai battuti prima in friulano.
Nel 2002 il romanzo Gilez (Gilez) inaugura la collaborazione con la Forum Editrice Universitaria Udinese. In questo secondo lavoro, sicuramente il più apprezzato e recensito della sua produzione, compone un’opera circolare, di stampo borgesiano, dove utilizza una lingua materiale come il friulano per interrogarsi sul dilemma del tempo. Nel 2005, sempre per la Forum, pubblica uno pseudo saggio dal titolo Il sium di chescj furlans in fughe (Il sogno di questi friulani fuggitivi), dai tratti compositivi assai diversi tra loro (vi compare persino, ad exemplum, un atto unico dove mette a confronto il friulano attuale con quello del ‘500 e ancora con lo spagnolo di Cervantes e il francese di Queneau).
Nel 2011 vince ancora il San Simon con due romanzi raccolti sotto il titolo cappello di Cronichis di Saveri Sengar (Cronache di Saveri Sengar). I due lavori vengono pubblicati dalla Forum nel 2012: Achì no ai viodût une pavee (Qui non ho visto una farfalla) esce in ottobre, Il numar 1089 (Il numero 1089) in novembre. Si tratta di una serie di romanzi che hanno per protagonisti l’antiquario Saveri Sengar e il professore di letteratura Arcjan Rinalt. Saveri possiede una caratteristica che si ritrova spesso in letteratura: ha la facoltà, una volta addormentato, di viaggiare nel tempo e nello spazio. Questo stratagemma consente all’autore di visitare la Storia, di entrare in contatto con altre culture e diverse lingue, dove i protagonisti intrattengono i rapporti più disparati con quanti incontrano, sempre in un rapporto di indifferenza con le lingue praticate e mai in condizioni di sudditanza culturale o psicologica.
A partire da questa serie (portata anche in teatro) Marchetta fa strame dei riferimenti classici dell’immaginario collettivo friulano, restituendo un mondo dove la particolare declinazione del friulano e dei suoi valori non appaiono mai minoritari ma integrati nel più ampio contesto della cultura europea.
Nel 2012 vince per la terza volta il San Simon con il romanzo U-, uscito nell’ottobre del 2013 ancora presso la Forum. Il mondo di U- è composto di tutti i romanzi che sono stati scritti nel tempo, compreso lo stesso U- che li descrive. In questo romanzo è il friulano stesso a diventare universale abbracciando ogni cosa. U- è anche oggetto di sperimentazione in rete: il prequel dell’opera appare infatti a puntate sul sito dell’autore e quindi, dopo la pubblicazione del volume, si dà l’avvio a una operazione di fan fiction, dove diversi scrittori si cimentano in una serie di racconti indipendenti utilizzando la tipologia del romanzo.
ANTOLOGIA Franco Marchetta
GILEZ
Rosario d’ore perdute / e l’inverno sfavilla le pietre / d’intorno a fare amara corona di sé / alla bianca presenza del vuoto. //
Amedeo Giacomini
Rosario d’ore perdute
Dovrei essere in pace. Ho capito. Non vi era chi diceva che la salvezza giunge quando si ha ottenuto la pienezza della conoscenza?
Ora tutto è chiaro e lo sguardo può posarsi sul tutto e sul particolare, può vedere ogni piccola parte concorrere al tutto, può frugare nel centro dove scorre la linfa, il respiro, la radice di ogni perché. Può vedere il bianco della neve che davanti a me si svolge sul prato fino ad arrampicarsi su una scarpata, o sulla prima, ostinata presenza di una collina; può vedere nel buio, cogliere con un’occhiata l’erba sotto la neve e accorgersi di quando la vita insisteva nella forma più misera di molluschi e licheni, e in alto il cielo principiava a intorbidirsi di vapori eccessivi: una presunzione di mare che un tempo era qui e che ora non c’è più; può vedere la terra dissolversi nel tempo fra sonno e veglia e la neve sprofondare per lasciare il posto a una melma confusa coi sassi, può vedere un sasso e tutti i sassi nello stesso momento, perché lo sguardo è il mio sguardo, io sono parte del mondo e il mondo è dentro di me.
Dovrei essere in pace, intontito di pace, ma tutto il capire non mi dà tregua: sono solo più saggio e serioso. E la saggezza più grande ora è quella di sapere troppo tardi: si capisce tutto quando non c’è più nulla da capire.
Où sont les buissons de roses qui entouraient la colline? Forse nell’oscurità non riesco a vederli, i rosai che circondano la collina. E le querce? Le grandi querce del bosco di Loisy, il loro verde uniforme appena distolto dai tronchi bianchi delle betulle dal fogliame tremulo: les grands chênes d’un vert uniforme n’étaient variés que par les troncs blancs des bouleaux au feuillage frissonnant.
All’intorno si sono ormai spente le faville in un niente che si perde nel morto, nel secco dell’inverno. Le pietre in cerchio, ancora rosse come braci, appaiono per ciò che sono: una corona che incornicia il bianco dell’erba bruciata, e io sono ancora qui davanti alla bianca presenza del vuoto.
Sono Nerval, sono Casaubon, sono Gilez perché sono io il figlio capace di camminare nel fuoco senza bruciarsi, un hombre mágico capaz de hollar el fuego y no quemarse. Ma il libro che tengo in mano brucia al pari delle pietre in cerchio: come mai Amedeo ha scritto quella poesia? Sono passati molti anni da quando l’ha scritta, come mai tutto accade ora? Rosari d’oris piardudis, Amedeo, e non sono perdute per sempre.
Credevo che fosse l’inverno a fare amara corona di sé nella poesia, non che fossero le pietre in cerchio ad abbracciare ogni pensiero. E ho sempre creduto che fosse l’inverno a sfavillare le pietre, non che le faville fossero il rimasuglio del fuoco improvviso e freddo che ha inghiottito Gilez. E il bianco, il bianco della neve all’intorno, Amedeo, l’erba morta dove la neve si è già dissolta: la bianca presenza del vuoto è tutto ciò che rimane! Hai scritto la poesia perché avevi capito: avevi capito che non c’è nulla da capire.
La religiosità della poesia. Prova a spiegarglielo, Amedeo, a chi non ha fede. Prova a spiegarglielo tu, se ne sei capace, che non c’è nulla da capire: tutto ciò che si cerca lo abbiamo già dentro, ma ci vuole molta strada per riuscire a toccarlo.
E allora tanto vale restare qui, attendere che si spengano le braci, guardare la scarpata o la collina, lasciare che lo sguardo si posi sul tutto e sul particolare, vedere ogni piccola parte concorrere al tutto, frugare nel centro dove scorre la linfa, il respiro, la radice di ogni perché, salutare Gilez dentro di me, prepararmi alla vita.
Ora è il momento giusto: non un secondo prima e neppure un secondo dopo.
IL NUMERO 1089
Il cappello di Clementis
Saveri Sengar cercava di riposare come un uomo qualunque, anche se sapeva bene che questo non era sempre nelle sue possibilità. Spesso si addormentava all’improvviso (e molte volte nemmeno tanto all’improvviso) per svegliarsi inesplicabilmente da un’altra parte.
Quel martedì, nel tardo pomeriggio, era stravaccato sulla poltrona che occupava un angolo della sua bottega di antiquario in Piazza San Giacomo e aveva iniziato a leggere, come se fosse una sorta di libro da consultazione, un romanzo di Milan Kundera, lo scrittore boemo che vive in Francia dal 1975, Il libro del riso e dell’oblio.
Nella prima pagina si narra la storia del cappello di Clementis, un dirigente del partito comunista della Cecoslovacchia.
Era il febbraio del 1948, il periodo del rovesciamento del potere per mano del Komunistická Strana Československa, e Klement Gottwald, che di lì a un po’ sarebbe divenuto presidente della repubblica, si era presentato al balcone di un palazzo di Praga per tenere un importante discorso al popolo che lo ascoltava in una piazza bianca di neve. Faceva molto freddo e Gottwald era a capo scoperto. Clementis allora si tolse il suo cappello di pelliccia e lo mise in testa al compagno. Il discorso era importante: cominciava la vita della Cecoslovacchia comunista e migliaia di fotografie di quel momento furono stampate e inviate in giro, inserite nei libri di scuola e trasformate in manifesti. Non si può dire che il periodo stalinista sia stato dei migliori, né per quello né per altri popoli, e quando, qualche anno dopo, Clementis cadde in disgrazia (e soprattutto cadde appeso a una forca), la sezione propaganda del partito, in ragione dell’usanza di quel tempo, lo cancellò da tutte le fotografie. Cancellarono Clementis, non il suo cappello. Di quello, rimasto sulla capoccia di Gottwald, si dimenticarono.
Saveri Sengar aveva tirato fuori il libro, per ricordare quell’episodio, dopo che il suo amico Arcjan Rinalt gli aveva raccontato di essersi trovato per caso nella casa di una sua fidanzata di parecchi anni addietro, una casa dove avevano vissuto assieme per un anno, subito dopo la sua laurea in lettere antiche all’Università di Padova. Insomma, stiamo parlando di più di trentacinque anni fa.
Arcjan, la sera prima, si era ritrovato a cena con un gruppo di amici al Vecjo Stali, una sorta di rimpatriata di sopravvissuti dei tempi del liceo, e uno di loro non era potuto venire perché aveva bisticciato con la moglie. Dopo aver cenato, ben carichi di vino e di qualche grappino, avevano deciso di andare a far la serenata al loro compagno prigioniero. Sul momento Arcjan non si era reso conto del luogo dove stavano andando, anzi non si ricordava per nulla la strada né il palazzo, un condominio degli anni Sessanta. Solo quando presero l’ascensore cominciò ad avvertire qualcosa di conosciuto, come se qualche ricordo lontano si facesse strada nel suo cervello.
Si dirà: possibile che uno non si ricordi del posto dove ha vissuto per un anno della sua vita, un anno che avrebbe dovuto essere stato parecchio importante: la prima volta che si gioca a casetta con una ragazza! Possibile, possibile. Quando si parla di Arcjan Rinalt, tutto è possibile. Si deve tener presente, per dirne una, che Arcjan una volta ha comprato un paio di scarpe uguale a quello che aveva acquistato nello stesso negozio una settimana prima, e che un’altra volta si è dimenticato la bambina di quattro anni a scuola materna per almeno tre ore (lo hanno trovato i carabinieri nel tardo pomeriggio che leggeva tutto tranquillo in biblioteca il libro trentunesimo delle Storie di Ammiano Marcellino, storie di molti anni prima della distruzione di Aquileia), e non aveva mostrato alcuna meraviglia quando gli avevano contestato l’abbandono di minore.
Per farla breve, Arcjan Rinalt non sapeva che il suo compagno del liceo, che non vedeva da almeno quarant’anni, aveva sposato la sua ragazza di allora, cosicché quando entrarono in casa, dopo aver fatto una bella caciara al campanello di sotto perché gli aprissero il portoncino, non si rese ancora conto di dove era tornato dopo tutto quel periodo. Del resto la casa era cambiata, era diventata la casa di una famiglia e non era più l’appartamento arrangiato di due studentelli o quasi. E poi, non è che la sua uscita da quella casa fosse un evento da ricordare come trionfale. Quando, seduto sul divano, circondato da cinque amici e dal loro compagno che masticava amaro sulla poltrona, si era trovato faccia a faccia con la vecchia fidanzata, mancò poco che non gli venisse un colpo. Avevano biascicato quattro parole e lui si era vergognato come un pidocchio sulla pelata di un calvo.
Seduto in disparte in silenzio, mentre gli altri urlavano e si sganasciavano, cominciò a guardarsi attorno e un po’ per volta si ricordò dei percorsi della casa: dalla cucina all’ingresso, dal bagno alla camera, dal salotto al balcone sulla strada. E presero a farsi avanti ricordi più o meno nitidi di momenti vissuti in quella casa.
A un certo punto saltò fuori quello che chiameremo il cappello di Clementis.
Aveva chiesto con un certo imbarazzo di andare in bagno e quando si trovò nel luogo dove, durante quell’anno di convivenza con la moglie del suo amico, chissà quante volte era andato di corpo, lo vide. Era appeso sulla maniglia della finestra ed era pieno di mutande sporche e di calzetti in attesa di essere lavati.
Era un sacco di tela per la roba sporca che lui aveva comprato a Londra nel 1971 (con tanto di scritta To be washed sotto il foro dove si facevano entrare le mutande), che si era portato dietro in almeno tre appartamenti da studente, finché lo aveva appeso, all’inizio di una radiosa ed entusiastica avventura che sarebbe durata appena un anno, alla finestra del bagno di quella casa.
In un primo tempo si chiese come mai non lo avesse portato via, ma poi si ricordò che la sua uscita da quella casa non gli aveva lasciato molto tempo per pensare: di grazia se era riuscito a rastrellare gli abiti e le scarpe che la ragazza gli buttava giù per le scale. Dopo un po’ vide la situazione in tutta la sua evidenza lei aveva conservato nel bagno di famiglia un accessorio per lui davvero intimo, dove erano stati messi calzetti sporchi (e ancor peggio mutande) per anni. Tutta la casa attorno a quell’oggetto era cambiata, ma il sacco della roba sporca, no. Anzi, probabilmente in quel momento sarà stato pieno di mutande e calzetti del marito. Buttò un occhio: era proprio così.
Il sacco della roba sporca di Arcjan era sopravvissuto a un anno di vita insieme, al pari del cappello di Clementis era sopravvissuto alla scomparsa del suo padrone.
Ad Arcjan Rinalt non sembrò una cosa tanto normale. E quando Saveri Sengar gli disse che non era stato proprio un gesto di cui vantarsi quello di buttare dalla finestra, sul tetto dei garage del condominio, il sacco con tutte le mutande sporche dell’altro, Arcjan si vergognò ancora di più.
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