Il Professor Anthony (Toni) Aquilina è docente presso l’Università di Malta, nel Dipartimento di Traduzione, Interpretazione e Terminologia, ma collabora anche con la Faculty of Education (Scienze dell’Educazione) e con il Dipartimento di francese della Faculty of Arts (Lettere). I suoi settori di specializzazione sono la teoria e la pratica della traduzione dal francese in maltese e la letteratura francese e francofona dell’Ottocento e del Novecento.
Possiede il diploma in scienze dell’educazione del Malta College of Education, la laurea di primo livello in lingua e letteratura francese (B.A. Honours) dell’Università di Londra, e ha proseguito i suoi studi di specalizzazione in Francia all’Università di Poitiers (DI.M.A.V., M. ès L., D.E.A., D. ès L.). Ha partecipato a vari congressi internazionali sia a Malta che all’estero e ha pubblicato studi in riviste specializzate. È appassionato della traduzione di opere letterarie in maltese, specialmente dalla lingua francese, di cui segue l’elenco.
In riconoscimento del suo impegno a favore della diffusione della lingua francese a Malta è stato insignito dell’onorificenza di Chevalier et Officier dans l’Ordre des Palmes Académiques.
È nato nella città di Qormi, a Malta, nel 1954, è nel campo della traduzione ha al suo attivo i seguenti lavori:
Traduzione di opere letterarie francesi
“L’Arlesienne” di Alphonse Daudet, 1993.
“L’Eté” d’Albert Camus, 1997 e 2012.
“L’Amie de Madame Maigret” di Georges Simenon, 1999.
“Le Petit Prince” di Antoine de Saint Exupéry, 2000.
“‘Marroca’ et autres contes” di Guy de Maupassant, 2003.
“La symphonie pastorale” di André Gide, 2005.
“En attendant Godot” di Samuel Beckett, 2006.
“‘Le Donneur de l’eaubénite’ et autres contes” di Guy de Maupassant, 2007.
(Dall’inglese ) “Many Lives, Many Masters” di Brian Weiss, 2011.
“’L’Inutile beauté’ et autres histoires” di Guy de Maupassant, 2012.
“Le dieu du carnage” di Yasmina Reza, 2013.
“Comme s’il en pleuvait” di Sébastien Thiéry, 2014.
“Monsieur Ibrahim et les fleurs du Coran” di Eric-Emmanuel Schmitt, 2014.
Co-autore ed editore
“Théorie et pratique de la traduction littéraire français-maltais”, 2008.
“Glossarju Franċiż-Malti / Malti-Franċiż”, 2009.
“Glossarju Ġermaniż-Malti / Malti-Ġermaniż”, 2012.
“Literature in Translation”, 2013.
Studi letterari in antologie
“Jiflu minijiethom”.
“Symposia Melitensia – 1 e 4”.
“Il-Malti – LXXV / LXXVI / LXXVIII / LXXXIV”.
“Dawl Ġdid Fuq Vassalli”.
“Baħħara tal-Kelma”.
“L-Edukazzjoni hi Politika – Kitbiet Paolo Freire”.
“The Fair Land – an Anthology of Maltese Literature”.
Autore di sottotitoli in maltese di opere cinematografiche
“Les Choristes” di Christophe Barratier (con Mary-Jo Caruana).
“Fight Club” di David Fincher (con Simon Cassar).
“Le Havre” di Aki Kaurismäki (con Emanuela Vella).
ANTOLOGIA Anthony Aquilina
In mare
Tempo fa apparve sui giornali questa notizia:
Boulogne-sur-Mer, 22 gennaio – Ci scrivono:
“Una terribile disgrazia ha portato la disperazione fra la nostra popolazione marittima, già tanto provata in questi ultimi due anni. L’imbarcazioe da pesca comandata da padron Javel, mentre entrava in porto, è stata trascinata verso ovest ed è andata a sfasciarsi sulle rocce del molo.
“Nonostante gli sforzi del battello di salvataggio e le corde mandate per mezzo dell’apposito fucile, quattro uomini e il mozzo sono morti”.
“Il maltempo continua. Si temono altre disgrazie.”
Chi è questo padron Javel? Forse il fratello del monco?
Se il pover’uomo trascinato dalle onde, e forse morto sotto i rottami della sua barca infranta, è la pesona che credo, costui aveva assitito, diciotto anni fa, a un altro dramma, semplice e terribile come sempre sono i possenti drammi del mare.
A quell’epoca Javel era proprietario d’una paranza.
La paranza è la barca da pesca per antonomasia. Solida da non temere alcun maltempo, con la pancia tonda, sballottata continuamente dalle onde come un tappo, sempre in giro, sempre frustata dai venti aspri e salati della Manica, batte il mare, infaticabile, con la vela gofia, trascinando sul fianco una gran rete che raschia il fondo del’oceano, stacca e trascina tutti gli animali che dormono fra le rocce, i pesci piatti incollati alla sabbia, i granchi pesanti con le tenaglie adunche, i gamberoni coi baffi e punta.
Quando la brezza è fresca e l’onda breve, la barca comincia a pescare. La rete è fissata lungo una grande asta di legno rinforzata di ferro che viene calata per mezzo di due gomene che scorrono su due rulli alle due estremità dell’imbarcazione. E la paranza, andando alla deriva sulla corrente, sottovento, si trascina dietro quest’apparato che devasta e sconvolge il fondo del mare.
C’erano a bordo con Javel il suo fratello minore, quattro uomini e un mozzo. Erano usciti da Boulogne con un bel tempo limpido per gettare la sciabica.
Ma presto si levò il vento e sopravvenne una burrasca che costrinse la paranza a fuggire. Arrivò alle coste inglesi, ma il mare sconvolto batteva sulle scogliere, si scagliava contro la terra, rendendo impossibile l’accesso ai porti. L’imbarcazione riprese il largo e tornò sulle coste francesi. La tempesta seguitava a rendere invalicabili i moli e copriva di schiuma, di frastuono e di pericolo tutti gli approdi di fortuna.
Di nuovo la paraza ripartì, correndo sul filo delle onde, sballottata, squassata, grondante, schiaffeggiata da masse d’acqua, ma nonostante tutto gagliarda, abituata al tempaccio che la costringeva a volte a errare per cinque o sei giorni fra i due paesi vicini, senza poter toccare né l’uno né l’altro.
Finalmente l’uragano si calmò, quando ancora si trovavano in mare aperto e, sebbene le onde fossero sempre forti, il padrone ordinò di gettare la sciabica.
Allora il grande ordigno di pesca fu fatto passare sopra il borgo e due uomini davanti e due dietro cominciarono a far scorrere sui rulli le gomene che lo tenevano.
D’improvviso toccò il fondo; ma un gran cavallone fece inclinare l’imbarcazione e Javel minore, che si trovava davanti per dirigere la calata della rete, barcollò e si trovò col braccio preso fra la corda momentaneamente allentata dalla scossa e il legno su cui stava scorrendo. Fece uno sforzo disperato, cercando con la mano libera di sollevare la gomena, ma già la sciabica tirava e il cavo irrigidito non cedette.
Contorcendosi dal dolore l’uomo chiamò aiuto. Accorsero tutti. Suo fratello laciò il timone. Si buttarono sulla corda, cercando di svincolare il braccio che essa stritolava. Fu inutile. “Bisogna tagliare”, disse un marinaio, ed estrasse un coltellaccio che con due colpi avrebbe potuto salvare il braccio di Javel minore.
Ma tagliare voleva dire perdere la sciabica, e quella sciabica valeva un mucchio di soldi, millecinquecento franchi; ed era di proprietà di Javel maggiore, che ci teneva alla sua roba.
Costui gridò disperato: “No, non tagliare; aspetta, metto sopravvento”. E corse al timone, girando tutta la barra.
Il battello obbedì appena, paralizzato dalla rete che frenava il suo slancio, e trascinato dalla forza della deriva e del vento.
Javel minore s’era lasciato cadere in ginocchio, coi denti stretti e gli occhi stralunati. Non diceva nulla. Suo fratello tornò, sempre con la paura del coltello d’un marinaio: “Aspetta, aspetta, bisogna mollare l’ancora”.
L’ancora fu gettata, fu filata tutta la catena, poi cominciarono a girare l’argano per allentare le corde della sciabica. Finalmente ci riuscirono e il braccio inerte, sotto la manica di lana insanguinata, fu liberato.
Javel minore sembrava inebetito. Gli tolsero il camiciotto e videro una cosa orribile: la carne tutta spappolata e il sangue che spicciava a fiotti, come spinto da una pompa. L’uomo si guardò il braccio e mormorò: “Fottuto”.
Poi, siccome l’emorragia formava una pozza sul ponte, uno dei marinai gridò: “Si sta dissanguando, bisogna legare la vena”.
Presero uno spago, un grosso spago bruno e incatramato, allacciarono il braccio sopra la ferita e strinsero a tutta forza. Gli schizzi di sangue diminuirono a poco a poco, finché finirono.
Javel minore si alzò, col braccio che gli penzolava sul fianco. Lo prese con l’altra mano, lo sollevò, lo torse, lo scosse. Era tutto rotto, le ossa spezzate, soltanto i muscoli trattenevano quel brandello del suo corpo. Lo guardava con occhio tetro, riflettendo. Poi si sedette su una vela piegata e i suoi compagni gli consigliaro di bagnare continuamente la ferita, per impedire il male nero.
Gli misero accanto un secchio e ogni tanto lui vi immergeva un bicchiere e bagnava l’orrenda piaga facendovi colare un filino d’acqua chiara.
“Giù starai meglio”, gli disse suo fratello. Lui scese, ma dopo un’ora tornò su, non stava bene da solo. E poi preferiva l’aria aperta. Si sedette sulla vela e ricominciò a bagnarsi il braccio.
La pesca era buona. I grandi pesci col ventre bianco gli giacevano accanto, squassati dagli spasmi della morte: li guardava senza cessare di bagnarsi le carni straziate.
Mentre stavano per arrivare a Boulogne, si scatenò un altro temporale; e la navicella riprese la sua folle corsa, sussultando e impennandosi, scrollando l’infelice ferito.
Scese la notte. Il tempo restò brutto fino all’alba. Al levarsi del sole erano di nuovo in vista dell’Inghilterra, ma, dato che il mare era meno cattivo, ripartirono per la Francia bordeggiando.
Verso sera Javel minore chiamò i compagni, indicando certi segni neri, brutte tracce di putrefazione sulla parte del membro che non era più sua.
I marinai guardavano e dicevano la loro opinione.
“Potrebbe essere il Nero”, diceva uno.
“Bisognerebbe buttarci l’acqua salata”, disse un altro.
Portarono l’acqua salata e la versarono sulla piaga. Il ferito illividì, fece scricchiolare i denti, si contorse un poco, ma non gridò.
Appena il bruciore fu passato: “Dammi il coltello”, disse a suo fratello. Costui glielo tese.
“Reggimi il braccio teso in aria, tiralo”.
Fecero come chiedeva.
Cominciò a tagliare da sè. Tagliava pian piano, con ponderazione, troncando gli ultimi tendini con la lama affilata come un rasoio: e presto restò soltanto il moncone. Mandò un profondo sospiro e disse: “Ci voleva. Ero fottuto”.
Pareva sollevato e respirava con forza. Ricominciò a versare acqua sul troncone di braccio che gli restava.
La notte fu nuovamente cattiva e non poterono toccare terra.
Appena si fece giorno, Javel minore prese il suo pezzo di braccio e lo guardò a lungo. La putrefazione era evidente. Anche i compagni vennero a esaminarlo, e se lo passavano di mano in mano, palpandolo, rigirandolo, annusandolo.
Suo fratello disse: “Ormai bisogna buttarlo in mare”.
Javel minore si adombrò: “Questo proprio no. Non voglio. È mio, perchè il braccio è mio”.
Lo prese e se lo mise tra le gambe.
“Va a male lo stesso”, disse il maggiore. Allora il ferito ebbe un’idea. Per conservare il pesce quando stavano per molto tempo in mare lo mettevano a strati col sale in un barile.
Chiese: “Potremmo metterlo in salamoia”.
“È vero”, dissero gli altri.
Vuotarono un barile, già pieno della pesca dei due giorni precedenti e, in fondo, ci misero il braccio. Poi ci versarono il sale e sopra, a uno a uno, rimisero i pesci.
Un marinaio disse questa spiritosaggine: “Purché non lo vendiamo al mercato”.
Tutti risero, meno i due Javel.
Il vento seguitava a soffiare. Bordeggiarono ancora, al largo di Boulogne, fino alle dieci del giorno seguente. Il ferito seguitava a gettarsi continuamente acqua sulla piaga.
Ogni tanto si alzava e camminva da una parte all’altra dell’imbarcazione.
Suo fratello, che stava al timone, lo seguiva con lo sguardo, scuotendo il capo.
Finalmente entrarono in porto.
Il medico esaminò la ferita e disse che era in buone condizioni. Fece una completa medicazione e prescrisse riposo. Ma Javel non volle andare a letto senza essersi ripreso il braccio e tornò al porto a cercare il barile, che aveva contrassegnato con una croce.
Lo vuotarono davanti a lui e si riprese il braccio, ben conservato nella salamoia, raggrinzito, fresco. Lo avvolse in un tovagliolo che aveva portato apposta e tornò a casa.
Sua moglie e i figli esaminarono a lungo quel resto del padre, palpando le dita e togliendo i pezzetti di sale rimasti sotto le unghie; poi chiamarono il falegname che prese le misure per una piccola bara.
Il giorno seguente l’intero equipaggio della paranza seguì il funerale del braccio mozzato. I due fratelli, a fianco a fianco, aprivano il corteo funebre. Il sacrestano della parrocchia teneva il cadavere sotto l’ascella.
Javel minore smise di navigare. Ebbe un impieguccio nel porto e dopo, quando parlava della sua disgrazia, confidava sottovoce al suo interlocutore: “Se mio fratello avesse voluto tagliare la paranza, io il braccio ce l’avrei ancora, di sicuro. Ma lui ci teneva alla sua roba”.
Maupassant: tutte le novelle – I Meridiani –
Arnoldo Montadori Editore
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